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Martedì, 26 Maggio 2015 15:08

Là dove si perde il giorno

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Impressioni paesaggistiche sulla pittura di Leonardo Serafini.

Nelle pitture di Leonardo Serafini si percepisce l’evidente intelaiatura della composizione e, al centro di essa, una linea d’ orizzonte emergere dai colori, dalla materia. Talvolta si tratta di segni neri, netti, che ricordano le gabbie materiche di Franz Kline; talaltra si tratta invece di una struttura suggerita, che ricorda i paesaggi di Nicolas de Staël e le calde cromie di Afro.

Diversi sono i nomi della grande pittura europea del Novecento, tra figura e astrattismo, che si possono qui portare a riferimento: pur autodidatta, Leonardo Serafini ha assimilato la lezione dei maestri. Ma è bene citarli adesso e dimenticarli, perché la sua pittura sintetizza le influenze del passato per andare altrove, nei meandri di una pittura originale, venata di ritrosa severità tutta marchigiana. Sarà che una parte della mia famiglia proviene dalle colline camerti, ma mi sembra di riconoscere nei segni di Serafini paesaggi familiari a quelle terre, anche laddove i titoli rimandano ad altro. Nell’armonica convivenza di monti e cielo, di colline e orizzonti infiniti che si ammirano nella regione si profila una natura o una città umbratili, schive e imponenti insieme, ma venate di dolcezza e di un’ eleganza che talvolta guarda a oriente, al di là dell’Adriatico. È da lì che viene il piacere per il grafismo degli ideogrammi verticali, le campiture in oro, certe diafane trasparenze, certe punte come guglie o cupole stagliate nel cielo. Il tutto a favore di un equilibrio compositivo che appare anche nel rapporto tra vuoti e pieni, sottolineato spesso da quella linea d’orizzonte centrale. Percepisco dunque i suoi quadri come paesaggi, anche quelli che non lo sono, per questo senso permanente dell’orizzonte, per il colore sporco, veloce, furioso, che sgorga come magma dal ventre della terra. E in questi paesaggi campeggia una forma di lacerazione, quasi sempre presente, fatta di grandi segni, o invece più calligrafici arabeschi che, seppur decorativi, agiscono come cicatrici sulla superfice.

Le opere di Serafini emanano un senso della fragilità dell’umano di fronte alla Natura e alla Storia che mi riporta ai versi di Leopardi. In un verso de Il passero solitario il poeta stigmatizza un pensiero struggente nato contemplando il calar del sole, quell’orizzonte appunto già citato: “…mi fère il Sol che tra lontani monti,/ dopo il giorno sereno,/ cadendo si dilegua, e par che dica/ che la beata gioventù vien meno”. Quel sole che cadendo si dilegua è una pittorica rappresentazione della malinconia crepuscolare come la rende Serafini sulla tela, dove aleggia palpabile un senso di introspezione vespertina. E il ‘cadere’ del giorno all’orizzonte ricorre in altri versi. Ne Il tramonto della luna: “Caduto lo splendor che all’ occidente/ Inargentava della notte il velo”. Ne Il sabato del villaggio, dove il poeta descrive il finire del giorno come un luogo, invece che un momento: “là dove si perde il giorno”. Il sentimento del tramonto non come un’ora, bensì come un luogo dove gli astri cadono, si perdono, spirano e si dileguano, non è forse l’ orizzonte serafiniano? E al di sopra e al di sotto di esso, campiture lasciate libere come brani di cielo, lo stesso cielo a cui Leopardi confida il dolore dell’esistenza. Nelle opere invece cromaticamente più accese, lo struggimento dei ‘paesaggi’ appare contenuto, domato in una griglia linguistica che va verso la tradizione di Osvaldo Licini, grande artista di origine marchigiane (nacque a Monte Vidon Corrado), anch’ egli in dialogo con la luna, il cielo, la natura. Nella vastità di impressioni paesaggistiche che queste pitture stimolano, mi chiedo se non è vero ancora oggi quello che ha scritto Vittorio Sgarbi nel prologo al suo libro Il tesoro d’Italia (2013) sull’arte medievale e rinascimentale: “Tutto quello che la pittura italiana ha pensato e concepito si trova nelle Marche”.

Letto 5554 volte Ultima modifica il Martedì, 22 Settembre 2015 15:27
Maria Stella Bottai